Non vogliamo apparire come falsi buonisti o predicare un “volemose bene” a-storico più che anacronistico. Le simpatie e le antipatie superficiali, a pelle, caratterizzano tutte le nostre giornate, sportive o lavorative che siano. Siamo esseri umani, fasci di percezioni che ci mettono in relazione con il mondo circostante, con le altre persone e non con tutte entriamo in sintonia.
Nasciamo in un mondo che ci insegna opposti e contrapposizioni, il bene e il male, il giusto e lo sbagliato e fin da piccoli, prima di aver pronunciato frasi di senso compiuto ci rotoliamo in sciarpe di squadre di calcio che ci resteranno legate come una seconda pelle fino alla fine dei giorni, portandoci a creare l’avversario, la squadra odiata e “gufata”.
Difficile quindi stupirci se la cultura sportiva regnante porta con sé vagonate di odio immotivato che sfocia talvolta in becere rappresentazioni che nulla hanno a che fare con gli scopi per cui ci si affaccia al mondo dello sport. Specialmente in Italia siamo professionisti del tifo nella sua forma peggiore e non è una croce esclusivamente calcistica, anzi, è ben presente in quasi tutte le discipline, le categorie e le fasce d’età.

Anche la pallacanestro vive di tifo ma, intendiamoci, non abbiamo nulla in contrario al fatto di supportare anche con furore la propria squadra del cuore o il proprio beniamo; siamo bensì convinti che questo dia gusto e riempia di senso il mondo dello sport. Il ritornello, tristemente noto in questi mesi di pandemia, del “senza tifosi non è la stessa cosa” è la cruda realtà.

Non possiamo però soprassedere su questa forma di odio che gli americani chiamano “hating” che realmente condiziona molti di noi e ci impedisce di apprezzare prodotti sportivi di altissimo livello. L’NBA in questo senso è regina di una forma tutta particolare di odio, in quanto mette in mostra alcuni dei migliori atleti del mondo che per la loro popolarità e grandezza sportiva assumono spesso i connotati di un’intera squadra e diventano bersaglio di critiche oggettivamente sproporzionate e mal direzionate. Potremmo parlare di Lebron James, il più amato ed il più odiato, criticato per “The Decision” e per qualsiasi altra decisione da lì in poi. Potremmo parlare di Kevin Durant, reo di avere abbondato OKC per qualche titolo facile con l’armata Warriors; oppure di Westbrook i cui detrattori superano spesso e di gran lunga i fan.

L’attualità ci spinge però verso un altro atleta, la cui carriera identifica alla perfezione il concetto espresso poc’anzi.

Su James Harden si è sentito di tutto. Siamo sinceri, non siamo di fronte al più carismatico leader del ventunesimo secolo e se il basket è metafora di collaborazione e spirito di squadra non è il primo esemplare che balza alla mente per chiarire il concetto. Ciò detto, è invece oggettivo come ci si trovi di fronte ad uno dei più grandi realizzatori della storia del gioco, ad uno dei migliori giocatori che la nostra generazione abbia avuto il privilegio di vedere in azione.
Il modello Rockets aveva certamente portato all’estremo i suoi pregi ma anche i suoi difetti, donandosi completamente a lui e vivendo delle sue prodezze (molte) e delle sue cadute (non sono mancate).

Lo strapotere messo in mostra da Harden negli ultimi anni è qualcosa di difficilmente replicabile, è andato ad una partita normale al tiro dall’eliminare la più grande squadra degli ultimi anni, gli Warriors in versione KD; ha scherzato cestisticamente con una lega di superuomini ma non è riuscito ad andare a genio ai più per quel suo fare schivo, imbronciato, presuntuoso e per quella sua pallacanestro fatta di tante (forse troppe) responsabilità e palleggi estenuanti.

Il passaggio a Brooklyn dove, con buona pace sua, non sarà il maschio alfa può essere un momento importante per lui ma anche per tutti noi. Tornare ad ammirare un Harden in versione OKC, difensore pazzesco, realizzatore mortifero e uomo funzionale ad un gioco di squadra potrebbe restituirci tutte quelle sensazioni che inevitabilmente ci avevano fatto innamorare  del Barba.

Può essere un percorso di riflessione per molti, per guardarci indietro con giudizio critico verso il modo in cui troppo spesso consideriamo il talento uno strumento accessorio nel parlare di un giocatore. Godere della grandezza dei migliori atleti del pianeta deve essere un piacere ed un privilegio e proprio James Harden è il manifesto di quanto si possa vivere lo sport in maniera sbagliata.

Non ci facciamo facili illusioni. Sappiamo che la figura dell’hater non scomparirà dall’oggi al domani, ma invitiamo chi vorrà farlo ad una riflessione più matura verso le energie negative che troppo spesso contaminano lo sport in generale, senza eccezione per la nostra amata pallacanestro.
Noi stessi talvolta ci siamo accorti di essere caduti preda di un meccanismo che non è quello della simpatia o dell’antipatia e nemmeno del tifo sano e ben direzionato ma è giunto il momento di esorcizzarlo. Non è facile retorica o buonismo, ma consapevolezza. La figura del Barba è in questo senso emblematica e speriamo che il suo trasferimento torni a conferire energia positiva ad un giocatore straordinario e permetta a chi lo guarda di goderne senza resistenze.
La cultura sportiva è un fattore decisivo nella nostra società e nel nostro piccolo ci battiamo per portarla su una carreggiata più sana e umana. La cultura sportiva non inizia e non finisce con il tornare a voler bene sportivamente ad Harden che è uno spillo nell’oceano del problema ma può per alcuni essere un punto di svolta importante.