A quell’ora del giorno il sole sembra tremendamente vicino alle nostre teste e tenere gli occhi aperti senza schermarsi con la mano è un’impresa ardua.
Matheus è perfettamente a suo agio, indossa dei pantaloni verdi (lunghi!) di un tessuto sintetico decisamente poco traspirante, le ciabatte infradito infilate nei polsi ed un cemento rovente sotto ai piedi scalzi.
Ci avrebbero poi spiegato che tutti i bambini corrono così, giocano con le ciabatte al sicuro per non perderle e, soprattutto, non sono molto abituati ad indossare calzature.
Per qualche minuto restiamo immobili, con un sorriso forzato sul volto, guardando Matheus che corre, gioca e si avvicina per interagire con noi. Dal portico sbucano anche Arthur e Isaaky, saranno i fratelli o amici provenienti dallo stesso Bairro pensiamo, non lo sappiamo ma proviamo a sorridere mostrandoci a nostro agio e cercando di ritrovare le motivazioni che ci hanno portato lì.
Matheus ci afferra le mani e ci guida spiegandoci come interagire con lui. Lui è il maestro, noi siamo i bambini smarriti. Ci indica, fa domande, sorride, noi non capiamo ma lui non si arrende, si dispera in modo giocoso e riprende il dialogo. Lentamente la tensione scompare e cominciamo a ricordare le ragioni che ci hanno portato dall’altra parte del mondo, nel nord-est del Brasile, nello stato del Ceará, a Pacotì a 30 minuti da Fortaleza.
“O ci, o ci, o ci”, una moltitudine di bambini ci corre incontro reclamando attenzioni, scavalcando i propri compagni di classe per essere il primo o la prima a conquistare una parte di noi, per conoscere il motivo della nostra presenza lì o semplicemente per presentarsi.
Ci scrolliamo a vicenda, visti dall’esterno probabilmente somigliamo a tre pali della luce non molto svegli, inebetiti. “Bascheci, bascheci” urlano i bambini, ci capiamo a gesti, mimiamo un tiro a canestro, ci facciamo coraggio e ci immergiamo in questa folla di “crianças”.
La settimana precedente è stata favolosa. Giunti in Brasile per un progetto umanitario a sfondo sportivo, ci siamo dati da fare assieme ad Angelo, Lieta e a tutta la famiglia del Piamarta. L’allestimento dei due campi da basket, il ritiro dei palloni e la programmazione degli interventi sono state attività fisicamente faticose ma emotivamente molto semplici e lineari, ora è giunto il momento di mettere in gioco le emozioni, i sentimenti, l’empatia; non sarà una procedimento meccanico, ci dicono che verrà naturalmente, siamo agitati e speriamo di essere all’altezza delle aspettative dei bambini, di essere realmente utili.
Nel mare di mani protese verso di noi, scorgiamo gli occhi di Matheus, sembrano dirci “avete visto, non è poi così complicato, siamo solo bambini, giocheremo insieme a voi e sarà fantastico”, li portiamo in palestra, in un terreno a noi favorevole, ci presentiamo usando la palla, il campo e i canestri.
Lo stomaco si rilassa, il cuore si riempie, il sorriso prima forzato ora è dannatamente naturale. Probabilmente dall’esterno sembriamo ancora tre ebeti di 1.90 con un sorriso stampato in viso, ma questa volta è genuino, è la gioia infantile e senza compromessi che dopo una certa età è sempre più complicato ritrovare. Siamo in Brasile, siamo qui per loro e finalmente siamo pronti a donare tutti noi stessi per appassionarli ed emozionarli attraverso la pallacanestro. Non sappiamo ancora se al termine del nostro periodo insieme si scorderanno di queste mattinate insieme o se diventeranno fanatici della palla a spicchi, ma ora abbiamo ben chiare le ragioni per le quali ci troviamo qui e siamo pronti e renderle vive e concrete dentro ad un banale rettangolo di gioco.
Il viaggio di Extra Pass in Brasile è stato la realizzazione di un sogno divenuto prima progetto e poi fantastica realtà. È stato un viaggio mosso da un desiderio di solidarietà, di avventura e perché no anche di redenzione personale. Le due settimane trascorse con gli alunni delle scuole elementari, medie e superiori del centro educativo Piamarta sono di quelle che lasciano il segno. Ce lo aspettavamo o per lo meno era tra i nostri auspici, ma non ci siamo mai spinti a sperare che potesse prendere forma un’esperienza di vita tanto densa di significato.
Oggi dall’Italia stiamo ancora faticosamente cercando di riportare tutto a casa, ma non è semplice e forse va bene così. I contesti sociali da cui vengono i bambini con cui abbiamo giocato sono disumani. Povertà, abbandono, criminalità, tossicodipendenza e violenza sono gli ingredienti della loro infanzia. Qualsiasi genere di speranza non è tollerato, viene scientificamente represso ma finché sei bambino non te ne rendi conto, alzi gli occhi verso tre ragazzoni italiani che ti insegnano a palleggiare e immagini, sogni chi potrai diventare.
Il progetto di basket a Pacotì proseguirà anche dopo il nostro rientro, siamo già in contatto con istruttori locali che ci permetteranno di non interrompere questo splendido percorso. L’obiettivo principale era garantire continuità, lavorare affinché lo sport potesse entrare nei cuori dei bambini, coinvolgerli al punto da spingerli dentro ad una palestra e convincerli che coltivare un sogno non solo è possibile ma è anche giusto.
Abbiamo sperato di sgattaiolare via in silenzio, di non ricevere abbracci lunghi un’eternità, di non vedere lacrime su quei visi bellissimi, ma non siamo stati fortunati.
In quei minuti interminabili Matheus è rimasto defilato, ci ha salutato come si saluta una persona che rivedrai il mattino successivo. Volevo ringraziarlo per la maturità gigantesca che ha avuto nell’aiutarci ad entrare dentro quel mondo, ma il portoghese stentato ed il caos dei saluti non l’hanno permesso.
Forse però anche questo ha avuto un significato semplice e per questo superiore: “non c’è motivo di perdersi in lunghi addii, ci rivedremo presto, giocheremo la prossima volta”.
Matheus, concedimi un grazie, almeno questo te lo devo. Se i nostri giorni in Brasile sono stati una scoperta meravigliosa, spontanea e leggera è soprattutto merito tuo.
A presto!